25 Settembre 2024

Il mancato pagamento della P.A. non giustifica il ritardo nei tributi: la Cassazione esclude la forza maggiore

a cura di Lali Rusiyeva
dottoranda in Diritto Tributario, Università di Bologna

Con l’ordinanza n.12708 del 09 maggio 2024, la Corte Suprema di Cassazione, Sez. V civ., si è espressa nuovamente sulla nozione di forza maggiore, quale esimente ai fini delle sanzioni tributarie, e sulla possibilità per il contribuente di poter invocare quest’ultima nel caso in cui la mancanza di liquidità sia dovuta all’inadempienza della Pubblica Amministrazione.

Il fatto

Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità traeva origine da un ricorso avverso una cartella di pagamento emessa in seguito a un controllo automatizzato ex art. 36 bis D.P.R. 600/1973, con il quale la contribuente, una società a responsabilità limitata unipersonale, contestava l’iniquità delle sanzioni applicate per il ritardato pagamento dei primi due acconti Ires.

Nello specifico, la ricorrente poneva a fondamento delle proprie doglianze l’insorgenza di una crisi di liquidità la cui responsabilità era però da addebitarsi non all’agire colposo della società medesima, ma alla condotta della stessa P.A.. In altre parole, il temporeggiare della P.A. nell’assolvimento dei propri debiti dovrebbe integrare, a detta della ricorrente, una causa di forza maggiore idonea a giustificare il ritardo nei pagamenti degli acconti.

Le ragioni della ricorrente avevano persuaso sia il giudice di prime cure che il giudice di appello, i quali constatavano il difetto del requisito della colpevolezza, la cui sussistenza è necessaria ai fini dell’applicabilità delle sanzioni pecuniarie amministrative. Ulteriore argomento a sostegno della posizione vittoriosa della contribuente risiedeva nel fatto che quest’ultima avesse come unico cliente proprio la P.A., Procure della Repubblica e Tribunali in quanto società operante nel settore della locazione di impianti utilizzati per attività di intercettazione ambientale.

A ciò doveva aggiungersi, infine, l’incoerenza dell’agire pubblico in quanto “[…] dapprima la Pubblica Amministrazione non paga puntualmente i propri fornitori e poi, la stessa AgE sanziona il medesimo contribuente, che ha pagato gli acconti d’imposta in ritardo, per mancanza di disponibilità”. Pertanto, secondo i giudici di merito il mancato pagamento di fatture scadute da parte del mono-cliente comporta indubbiamente il realizzarsi di un evento riconducibile alla nozione di forza maggiore.

Forza maggiore e obblighi tributari

Prima di analizzare la decisione adottata dalla Suprema Corte, è utile ripercorrere brevemente alcuni punti focali della materia al fine di poter adeguatamente comprendere le ragioni della decisione in commento.

L’Amministrazione finanziaria ogniqualvolta riscontra una violazione di una norma tributaria, sostanziale e/o formale, che lede l’interesse fiscale attiva il proprio potere punitivo mediante l’attività sanzionatoria. Il sistema sanzionatorio amministrativo tributario[1] è ispirato, per ciò che concerne i principi generali e le loro implicazioni, al modello sanzionatorio penale[2].

Fra le tante garanzie operanti in materia rileva indubbiamente l’imputabilità della condotta (art. 4, D.Lgs. n. 472/1997) e la colpevolezza[3] sotto forma di responsabilità a titolo di dolo o colpa[4]. Ed è mediante quest’ultimo principio che migrano nel sistema sanzionatorio tributario anche le cause di non punibilità.

Quest’ultime sono state introdotte nel nostro sistema tributario all’art. 6, D.Lgs. 472/1997 e consistono in tutte quelle tassative ipotesi in cui l’ordinamento non imputa soggettivamente la condotta in capo all’autore materiale della stessa, ciò in quanto viene meno l’elemento soggettivo della colpa o vi è una carenza sotto il profilo dell’offensività in concreto della condotta.

Fra le varie cause di non punibilità vi è naturalmente la forza maggiore. I principali riferimenti legislativi si rinvengono anzitutto nell’art. 45 c.p., il quale dispone la non punibilità per chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore, e nell’art. 1218 c.c. secondo cui, in caso di inadempimento dell’obbligazione, il debitore non è responsabile qualora riesca a provare che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Secondo la definizione tradizionale si ha forza maggiore qualora si sia in presenza di una energia esterna non in grado di essere fronteggiata dal soggetto e che lo costringe obbligatoriamente ad agire: vale a dire, il soggetto agitur, non agit[5].

Tale nozione non sempre permette di distinguere agevolmente il concetto di forza maggiore dalla nozione di caso fortuito. Senza ripercorre l’esegesi di tale distinzione, che ha animato gli studiosi della materia per un tempo notevole, per pura completezza espositiva si rammenta come i criteri distintivi fra le due figure siano stati individuati nella caratteristica per il caso fortuito della imprevedibilità e della irresistibilità per la forza maggiore[6]. Quest’ultima, pertanto, “sussiste in tutte le ipotesi in cui l’agente abbia fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e che per cause indipendenti dalla sua volontà (e irresistibili) non vi era la possibilità di impedire l’evento o la condotta antigiuridica[7].

L’applicabilità in ambito tributario della forza maggiore, quale scriminante per omesso o tardivo versamento dei tributi dovuti, è stata al centro di un ampio dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza in relazione ad alcuni specifici reati tributari. Le considerazioni che saranno esposte traggono la propria fonte da pronunce legate alla responsabilità penale per alcune violazioni tributarie ma, dato il già citato rinvio al modello sanzionatorio penale, i principi espressi in tali pronunce sembrerebbero astrattamente trovare applicazione anche in materia delle sanzioni amministrative tributarie.

Il tema della rilevanza della “crisi di liquidità” ha visto una difformità di pensiero fra i giudici di merito e quelli di legittimità: i primi hanno, in via del tutto prevalente, assunto una posizione pro-contribuente, offrendo due diverse considerazioni della natura dell’istituto.

Alcune pronunce hanno evidenziato la mancanza dell’elemento soggettivo del dolo in tutte quelle ipotesi in cui il contribuente versa in uno stato di illiquidità incolpevole (ad esempio provocata dall’inadempimento di soggetti terzi) e in presenza di quei comportamenti rappresentativi di una volontà di far fronte al proprio obbligo tributario (come proposta di un piano di rateizzazione, rinuncia allo stipendio etc.)[8].

Secondo una diversa tesi, ciò che invece rileva è proprio la forza maggiore: la carenza di liquidità rappresenterebbe una forza irresistibile non superabile da parte del contribuente e che porterebbe ad una inesigibilità[9] del comportamento imposto dalla norma violata.

La giurisprudenza di legittimità, al contrario, ha assunto una posizione austera negando, salvo casi estremamente eccezionali, qualsiasi importanza scusante alla mancanza di liquidità. Significativa, a tal riguardo, è la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 37424 del 28.03.2013[10], la quale ha affermato che il mancato adempimento da parte dell’imputato dell’accantonamento delle somme destinate al Fisco, quale organizzazione prodromica al versamento successivo, rende irrilevante la crisi di liquidità sopravvenuta, salvo il caso in cui il mancato accantonamento sia conseguenza non di una libera scelta del contribuente, ma di fattori che sfuggono al suo controllo.

Nonostante il giudizio sfavorevole all’imputato, i giudici di legittimità hanno dunque timidamente dato avvio ad un’apertura parziale[11] al riconoscimento della crisi di liquidità quale fattore scusante. Un apprezzamento, tuttavia, di stampo puramente teorico in quanto quasi mai si è vista l’assoluzione dell’imputato per tale ragione[12]. In altre parole, secondo la Suprema Corte, è astrattamente possibile configurare l’esimente della forza maggiore nel caso in cui il contribuente versi in una situazione di illiquidità, ma sempre fornendo prova che tale stato sia dovuto a circostanze anormali ed imprevedibili e che sia posto in essere ogni comportamento indispensabile per fronteggiare ciò.

La decisione

Ritornando alla pronuncia in commento, gli Ermellini ribadiscono il principio, già espresso in una precedente sentenza[13] e che riportano pedissequamente, in base al quale la forza maggiore deve essere intesa secondo la sua accezione penalistica e, pertanto, riferita ad un “avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, elidendo il requisito della coscienza e volontarietà della condotta; ne consegue che non risponde a tale nozione la crisi di liquidità derivante dal reiterato, per quanto grave, inadempimento di pubbliche amministrazioni debitrici, peraltro prevedibile[14].

In merito alla prevedibilità, elemento caratterizzante tale esimente, i giudici sottolineano come il ritardato pagamento della P.A risulti essere un fenomeno assai frequente e che richiede, dall’altro canto, l’onere per qualsiasi imprenditore di organizzarsi mediante accantonamenti e mutui in modo da poter fronteggiare questo spiacevole fenomeno e riuscire a far fronte ai propri obblighi tributari. Tale onere rappresenta uno degli elementi che compongono la nozione di forza maggiore in materia tributaria e fiscale.

La forza maggiore, infatti, esige la sussistenza di un elemento oggettivo, riguardante “circostanze anormali ed estranee all’operatore”, e un elemento soggettivo, costituito esattamente “dall’obbligo dell’interessato di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi”. La sussistenza di tali elementi deve essere oggetto di una specifica e attenta indagine da parte del giudice, evitando ogni sorta di automatismo nell’applicazione di tale scusante ogni volta in cui ricorra una crisi di liquidità.

La Corte, nel negare l’applicabilità dell’esimente, ha specificato ulteriormente come l’attività di impresa sia per sua natura rischiosa e che, per tale motivo, debba sempre essere effettuata da parte dell’imprenditore una valutazione prognostica in merito ai pagamenti attesi e agli oneri fiscali da assolvere in presenza di un ipotetico omesso o tardivo pagamento del debitore, sia esso un privato che la P.A., cercando di reperire fondi mediante i quali poter far fronte ai propri obblighi tributari. Ed è quest’aspetto che la Corte critica maggiormente, in quanto nel caso di specie, la contribuente non ha fornito alcun elemento comprovante il tentativo di rinvenire le somme sufficienti con le quali assolvere le proprie obbligazioni tributarie.

Come già accennato, la Corte di Cassazione si è espressa più volte sul tema, ribadendo come la sussistenza di una crisi di liquidità non costituisca ex sé forza maggiore rilevabile ai fini dell’applicabilità dell’art. 6 del D.Lgs. 472/1997[15]. In una recente pronuncia[16], la Corte ha ripercorso gli approdi giurisprudenziali sul tema, distinguendo finanche il principio elaborato dalla Corte di Giustizia da quello professato dalla stessa.

I giudici unionali, che hanno preso in considerazione la forza maggiore in relazione alla tematica delle accise, hanno posto l’attenzione sull’esistenza di circostanze estranee e imprevedibili che impediscono di tenere il comportamento dovuto e all’obbligo per l’operatore di premunirsi contro tutte le conseguenze anomale adottando misure appropriate[17].

I giudici nazionali, al contrario, hanno analizzato l’elemento della forza maggiore all’interno del diritto sanzionatorio valorizzando il requisito della coscienza e volontà del comportamento omissivo del contribuente, integrato dagli elementi dell’imprevedibilità e inevitabilità.

È all’accezione penalistica della forza maggiore che bisogna aver riguardo, riferendosi ad un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, facendo venir meno il requisito della coscienza e volontarietà della condotta.

Pertanto è necessario che il soggetto versi in una situazione tale per cui sia “assolutamente privo della possibilità di sottrarsi a una forza per lui irresistibile”. In questa prospettiva, nella nozione di “avvenimento imponderabile” non vi rientra in alcun modo il comportamento inadempiente della P.A., in quanto ben si tratta di un evento prevedibile che può essere fronteggiato dal contribuente mediante varie precauzioni.

Considerazioni conclusive

La pronuncia in esame è coerente con quanto stabilito dagli altri precedenti della Suprema Corte. Nel caso di specie è l’elemento della “mancata attivazione” da parte della contribuente che pare aver spinto i giudici a non riconoscere l’esimente della forza maggiore.

Ma la domanda sorge spontanea: nel caso in cui fosse stata allegata la prova dell’impegno della contribuente nel reperire le somme, tale diligenza sarebbe stata considerata sufficiente? Probabilmente, come suggeriscono gli stessi giudici, sarebbe stato contestato il non aver agito preventivamente mediante eventuali accantonamenti. Considerando che ogni circostanza deve essere esaminata singolarmente è lecito chiedersi se tale ragionamento possa essere mosso in questa specifica fattispecie.

La contribuente si trovava ad esercitare la propria attività in una situazione indiscutibilmente particolare in quanto operava unicamente con un mono-cliente rappresentato, appunto, dalla sola P.A. Se, come detto, l’impegno richiesto ad ogni imprenditore/contribuente ai fini del riconoscimento della forza maggiore non deve comportare “sacrifici eccessivi” nell’adozione di misure appropriate, appare indispensabile che la giurisprudenza fornisca degli elementi su cui basare il giudizio di eccessività.

Peraltro, gli ultimi anni sono stati segnati da una difficile situazione economico finanziaria su scala mondiale, circostanza che dovrebbe attivare ogni singolo Stato in un’opera di sostegno nei confronti di coloro che svolgono attività “rischiose” ma necessarie allo sviluppo di un paese, quanto meno così dovrebbe essere in uno stato civile. Nello stato “reale”, al contrario, non solo la P.A. adotta un modus operandi poco lodevole, ma richiede da parte dei comuni cittadini di fornire il buon esempio ed assolvere in maniera puntuale le proprie obbligazioni.

Un onere che si presume la contribuente sarebbe stata ben felice di adempiere – se non altro perché a nessuno piacere ricevere una cartella esattoriale – ma forse reperire e accantonare denaro quando si ha a che fare con un solo cliente inadempiente risulta estremamente difficoltoso, al limite del sacrificio eccessivo.

Occorre riflettere, del resto, anche sull’elemento della “prevedibilità” del reiterato inadempimento da parte della P.A.  Ci si domanda, in altre parole, “fino a dove” e “fino a quale misura” si può imporre al contribuente di prevedere tale inadempimento. L’operato amministrativo segue delle proprie regole e, per quanto possa assumere tratti che potremmo definire “consuetudinari”, non vi è sempre certezza sul suo agire. Sanzionare la contribuente per non aver profetizzato tale comportamento forse mal si concilia con lo stesso principio di colpevolezza, richiamando piuttosto la sussistenza di una responsabilità oggettivata.

Considerare che il comportamento della P.A sia un “fenomeno purtroppo ricorrente” equivale a riversare sul contribuente non solo i rischi già insiti di un’attività di impresa, ma anche i rischi fiscali connessi all’inadempimento della prima. I giudici avrebbero potuto attribuire una qualche considerazione a dette circostanze, quanto meno esternando un qualunque segnale di rimprovero a tale modus operandi, invece che limitarsi ad un misero “purtroppo”.

Sfortunatamente, il messaggio che finisce per essere veicolato è che alla P.A può essere scusato tale comportamento mentre per il contribuente, che ricordiamo essere al contempo il creditore, nessuna “clemenza” per il ritardo nel versamento dei tributi. Non si deve dimenticare, del resto, che si sta peraltro discutendo dell’Amministrazione Finanziaria, ufficio pubblico che ha il compito di gestire le entrate e le uscite di uno Stato. Mi domando, allora, come si possa giustificare un’ulteriore entrata nelle casse pubbliche, sotto forma di sanzione, nel caso specifico in cui la crisi della contribuente sia stata cagionata proprio dal comportamento riprovevole dello Stato stesso.

Note

[1] La disciplina delle sanzioni è contenuta nel D.Lgs. n.472/1997, recante disposizioni generali e nel D.Lgs. n.471/1997, ove sono individuate le singole fattispecie sanzionatorie. Il quadro legislativo di riferimento è completato dal D.Lgs. n.473/1997 che, in materia di imposte indirette, ha introdotto le singole fattispecie sanzionatorie nei relativi testi normativi.

Si rammenta, in ogni caso, che il sistema sanzionatorio tributario è stato oggetto di una recente revisione da parte del D.Lgs. 87/2024.

[2] A. CARINCI, T. TASSANI, Manuale di diritto tributario, VI Ed., Torino, 2023, p. 357.

[3] Art. 5, D.Lgs. 472/1997: “Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa [ … ]”.

[4] La definizione di colpa è quella generale prevista dall’art. 43 c.p., mentre, ai fini delle sanzioni tributarie, l’art. 5, D.Lgs. 472/1997 chiarisce i concetti di colpa grave e dolo, specificando che la condotta è dolosa quando è posta con l’intento di pregiudicare la determinazione dell’imponibile o dell’imposta ovvero ostacolare l’attività amministrativa di accertamento.

[5] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale – parte generale, VII Ed., Bologna, 2014, p. 229.

In materia si veda anche G. FIANDACA, Caso fortuito e forza maggiore nel diritto penale, in Dig.disc.pen., II, Torino, 1988.

[6] A. PECORARO ALBANI, Caso fortuito (dir.pen.), in Enciclopedia del Diritto, Vol. VI, 1960, p. 401.

[7] Cass., Sez. V, 11.05.2017, n. 23026.

[8] Si veda, in una fattispecie di omesso versamento dell’IVA, Tribunale di Milano, ufficio G.I.P., 7.01.2013, in Dir. Pen. Cont., il quale ha stabilito che “l’imputato è stato costretto a non pagare il dovuto da un comportamento omissivo e dilatorio da parte di enti pubblici che avrebbero dovuto saldare fatture per forniture ricevute […]” per un debito ritenuto “impressionante”. Pertanto, secondo il giudice, “non vi era alcuna intenzione da parte dell’imputato di evadere l’IVA”.

In precedenza, fra le tante, Tribunale di Milano, ufficio G.I.P., 19.09.2012, in Dir. Pen. Cont., secondo cui “se l’inadempimento dell’obbligazione tributaria dipende da mancata disponibilità di denaro a causa di gravi inadempimenti da parte di amministrazioni pubbliche debitrici, è integrata la forza maggiore che, in mancanza di prova contraria, esclude il dolo del reato di omesso versamento di ritenute certificate”.

[9] Trib.Milano, Sez. III, 18.02.2016, n.13701.

[10] In relazione al delitto di “omesso versamento IVA”.

[11] Le pronunce che si sono susseguite hanno, inoltre, posto l’interrogativo sulla natura da attribuire alla carenza di liquidità echeggiando, seppur con esito sempre sfavorevole al contribuente, le ricostruzioni teoriche della giurisprudenza di merito, affermando, dapprima, l’assenza dell’elemento volitivo del fatto (Cass., Sez. III, 8.04.2014, n. 20266) e poi sostenendo la tesi dell’inesigibilità, ovvero della forza maggiore (Cass., Sez. III, 25.02.2015, n.8352).

[12] R. GAROFOLI, Manuale di diritto penale – parte generale, XX Ed., Bari, 2023, pp. 874-877.

[13] Cass., Sez. V, 6.04.2022, n. 11111.

[14] In tal senso anche Cass., Sez. V, 7.04.2022, n. 11276.

[15] Cass., Sez. V, 22.03.2019, n. 8175; Cass., Sez. V, 22.03.2019, n. 8177.

[16] Cass., Sez. VI, 16.01.2023, n. 987.

[17] Corte di Giustizia: causa C-314/06; causa C-533/10; cause C-659/13 e C-34/14; causa C-154/16.

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