26 Aprile 2024

La mala gestio del conto dedicato

Come si sa, la L. 27-12-2013, n. 147, in quanto modificata dalla L. 4-8-2017, n. 124, ha disposto che il notaio debba versare su un apposito conto corrente “dedicato” tutte le somme dovute sugli atti stipulati a titolo di tributi per i quali egli sia sostituto o responsabile d’imposta (art. 1, co. 63, lett. a), quelle affidategli e annotate nel registro delle somme e dei valori (lett. b) e quelle ricevute come “deposito prezzo” o per estinguere gravami e pagare spese (lett. c).

La norma fondamentale sulla gestione del conto – da interpretare e applicare con rigore – impone al notaio di utilizzare queste somme, e sempre idoneamente documentandolo, solo per gli specifici impieghi per i quali gli sono state depositate (co. 66); per converso, perciò, il Legislatore le protegge da tutte le aggressioni che possano muovere soggetti terzi per altri fini: gli importi depositati sul conto dedicato costituiscono così, ora per espressa definizione normativa (il principio della separazione era già affermato in àmbito disciplinare) un “patrimonio separato” (art. 65), sono quindi esclusi dalla successione del notaio e dal suo eventuale regime patrimoniale familiare e soprattutto sono impignorabili da chiunque, come impignorabile è il credito al loro pagamento o restituzione.

La disciplina – è bene sottolinearlo subito per orientarne la lettura – non attiene esclusivamente al rapporto privatistico tra il notaio e il suo assistito, ma coinvolge anche finalità ed interessi pubblicistici, e non solo di evidente tutela dell’Erario: basti pensare che gli interessi netti maturati sui conti dedicati finanziano i fondi di credito agevolato per le PMI (co. 67).

È anche noto che, espressamente sollecitato dalla legge (co. 67), il Consiglio Nazionale del Notariato ha poi elaborato e diffuso nel dicembre 2017 specifici principi di deontologia – che integrano e non sostituiscono quelli generali – per individuare le “prassi migliori” di gestione del conto dedicato: basilare è l’indicazione (art. 2), secondo cui sul conto debba esserci in ogni momento la giacenza “in astratto necessaria” per eseguire, anche contemporaneamente, tutti gli adempimenti non ancora effettuati.

Giacenza “necessaria” significa – a una lettura rigida della regola deontologica – che devono essere appostate e mantenute sul conto anche le somme eventualmente non versate dagli assistiti in relazione agli atti ricevuti o autenticati, ma il cui versamento ricade nella responsabilità del notaio, perché altrimenti, nel tempo, si potrebbero generare ammanchi.

È questo il principio che deve guidare, temperato dal buon senso, come si vedrà, qualsiasi valutazione, sotto il profilo disciplinare, della gestione del conto dedicato da parte del notaio.

Occasione di commento è una decisione della COREDI Lombardia, che ne segue altre, sostanzialmente omogenee, di più Commissioni (Triveneto, Liguria, Marche/Umbria, Sicilia), di recente divenuta definitiva, che ha statuito la colpevolezza di un notaio il quale (come era emerso da un’analisi a campione della giacenza sul conto dedicato in tre date diverse) aveva utilizzato parte di quei fondi vincolati per far fronte a momentanei problemi di liquidità dello studio.

La sanzione è stata irrogata, ex art. 147, lett. b), L. N., per la violazione non occasionale degli artt. 1 e 45 dei Principi generali di Deontologia – il notaio avendo in pratica fatto prevalere tra i configgenti interessi le esigenze sue e dello studio, per di più compilando prospetti contabili non trasparenti – e degli artt. 1, 2 e 4 dei Principi applicativi che tutelano la lealtà fiscale.

L’articolata motivazione della COREDI fornisce un utile “panorama” dei criteri applicativi dell’illecito. E così, anzitutto condivisibilmente chiarisce che non rileva la circostanza, pur vera nel caso esaminato, che poi il notaio non abbia mai mancato di adempiere alle sue obbligazioni tributarie e restitutorie, dal momento che l’illecito disciplinare sussiste anche se non si sia arrecato nessun danno all’Erario o ai depositanti, presso i quali, ignari, non vi sia stata neppure un’eco negativa sulla reputazione del notaio o sul prestigio della classe notarile. Si tratta, infatti, di un illecito formale, di pericolo e non di danno.

Neppur scrimina la risultanza contabile, evocata a discolpa, per cui tra conto dedicato e conto ordinario di studio vi sarebbe sempre stata comunque una complessiva capienza e disponibilità per gli adempimenti: i due conti non sono fungibili tra loro.

È evidente, infatti, che trasferire le somme vincolate dal conto dedicato ad un conto ordinario significa sottrarle a quella rigorosa segregazione patrimoniale voluta dal Legislatore in termini cogenti. La garanzia offerta dal conto ordinario di studio, quand’anche sorretto da un fido bancario, è ovviamente molto più “fragile” della segregazione e quindi non può surrogare la tutela dovuta al conto dedicato, cioè, coprire con la stessa efficacia le posizioni creditorie dell’Erario e degli assistiti.

Non è superfluo sottolinearlo, anche perché un primo parere del 2018 del CNN, in verità piuttosto perplesso, ammetteva l’utilizzo del conto corrente ordinario, invece di quello dedicato, per la registrazione degli atti, in quanto “non espressamente vietato dalla normativa” e però solo “per un’occasionale esigenza dello studio e non come scelta ordinaria e sistematica”.

E’ più coerente – mi pare – tener per fermo, al contrario, l’obbligo del notaio di versare sul conto dedicato le somme ricevute dall’assistito che non sono sue, a prescindere dalla natura, principale o complementare, dell’imposta di destinazione (e quindi dall’eventuale responsabilità solidale), proprio in considerazione dell’interesse protetto, che cioè le somme affidate non si confondano con il patrimonio del notaio (così, del resto, si è espressa  la Corte d’appello di Venezia in due decisioni in sede di reclamo).

Sia pure fuori tema la Coredi Lombardia aggiunge che mantenere sul conto dedicato somme, quali gli onorari, destinate al conto libero potrebbe rappresentare un abuso del privilegio della segregazione ad indebito beneficio personale del notaio. In ogni caso, insomma, anche al di là di quest’ultimo rilievo, è bene distinguere drasticamente i conti, non foss’altro perché, quando si versano su quello dedicato anche incassi non pertinenti, si rischia poi che i successivi prelievi verso il conto di studio risultino eccessivi e (semmai inavvertitamente, ma pur sempre colpevolmente) non vengano quindi salvaguardati integralmente gli importi vincolati.

Questo rischio, di solito rimesso alla cura di un collaboratore del notaio, va ben considerato: il che non toglie – come ritiene anche, in sostanziale coerenza con la legge, la decisone in commento – che, ragionando secondo il buon senso evocato, non integri già subito l’illecito appostare l’intero importo ricevuto dalla parte normalmente con un unico assegno (quindi anche compensi, cassa nazionale ed IVA) sul conto dedicato, dove però il surplus deve permanere solo il tempo strettamente necessario alla verifica contabile.

Né le somme ricevute per un atto possono essere impiegate per le imposte di un altro atto o quelle ricevute in deposito fiduciario essere destinate ad una diversa restituzione (co. 66): nessun singolo importo deve essere utilizzato altrimenti rispetto alla sua specifica destinazione. Attenzione: neppur utilizzato provvisoriamente e con la riserva mentale di rifonderlo per tempo, durante la decorrenza del non ancora scaduto termine per il versamento o la restituzione (che, tra l’altro, le parti potrebbero sempre imprevedibilmente anticipare).

Certo, è evidente che non devono essere calcolati e quindi poi in ipotesi considerati mancanti quegli importi che solo per errore, senza titolo, siano stati accreditati sul conto dedicato; ed è certamente possibile (co. 66 bis) recuperare dal conto tali somme, come anche quelle altre che il notaio abbia anticipato con fondi propri, purché però queste ultime siano state intanto versate dalla parte e conferite nel dedicato. Ma solo queste somme, appunto, possono essere recuperate e sempre dando atto del prelievo, come del resto di ogni impiego, redigendo un apposito prospetto contabile, le cui modalità di redazione non sono – è vero – definite normativamente, ma il cui contenuto deve essere – è ovvio – fedele e trasparente.

Un suggerimento potrebbe essere quello di far vidimare da un altro notaio il registro contabile appositamente tenuto per il conto dedicato.

Condivisibile fin qui, suscita invece – si perdoni la severità – qualche perplessità il silenzio della decisione in commento su un ulteriore, non irrilevante, profilo: dopo aver accertato, in fatto, che le annotazioni dei prospetti contabili indicavano come (non consentita) destinazione dei prelievi dal conto dedicato solo il conto libero dello studio, mentre al contrario ne emergevano di rilevanti a favore di conti personali del notaio, anche questi ultimi prelievi sono stati implicitamente ricompresi nel territorio del disciplinare, considerati cioè quali utilizzo temporaneo e non definitiva appropriazione.

Reticenza non isolata e perciò da segnalare: la si riscontra – altro e non unico esempio – anche in una decisione della COREDI del Triveneto, che ha accertato l’omessa tenuta del conto dedicato emersa a seguito di 21 tentativi rifiutati di addebito da parte dell’Agenzia delle Entrate (la sanzione disciplinare è stata irrogata perciò in questo caso come in altri analoghi ex art. 147, lett, a, L. N. proprio perché, pur senza pubblico clamore, l’Agenzia e la Banca avevano comunque appreso della violazione con conseguente detrimento della reputazione del notaio). Eppure, un dubbio evidentemente era aleggiato, se è vero che – come riassume la Corte d’appello in sede di reclamo – “la confusione della pecunia publica con il denaro del notaio lo ha esposto ad agire sulla soglia di rilevanza penale della condotta”.

Occorre allora tentare di individuare con precisione il confine, che esiste, tra illecito disciplinare e peculato.

La previsione di questo delitto (art. 314 cod. pen.) fronteggia una “tentazione” tanto attuale quanto antichissima (già di quando, prima ancora dell’introduzione della moneta, ne era oggetto il bestiame – pecus – di proprietà collettiva destinato ai sacrifici): ne risponde il notaio pubblico ufficiale che si appropria ovvero distrae a suo profitto l’altrui denaro, del quale abbia, per ragione del suo ufficio, il possesso o comunque la disponibilità.

E non si può dubitare che delle somme versate o da versare sul conto dedicato, anche di quelle affidategli non per necessità di legge ma per volontà contrattuale, il notaio abbia il “possesso”: la nozione penalistica di possesso infatti è più ampia di quella civilistica, comprendendo anche la detenzione qualificata, cioè in pratica un qualsiasi potere di fatto che consenta di maneggiare, senza la sorveglianza diretta del titolare, il denaro altrui, ed anche di quello ricevuto al di fuori della competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale, ma pur sempre in “occasione” della sua qualifica.

All’evidenza, ma è importante tenerlo presente, la previsione penale non protegge interessi meramente patrimoniali (e, del resto, “profitto” può essere anche un vantaggio non patrimoniale), ma la stessa probità della funzione pubblica, da cui dipende il futuro del Notariato e verso la quale massima deve essere la fiducia, sempre guardinga e oscillante, dei consociati, tanto più quando, come appunto nell’affidarsi al notaio, non vi siano alternative, non potendo le parti trascrivere personalmente gli atti o pagare direttamente determinate imposte che dagli atti dipendono.

Premesso tutto ciò, come valutare però se il confine del peculato sia stato varcato?

Occorre accertare – risponde la giurisprudenza – caso per caso, tenuto conto delle circostanze concrete, se (e quando) vi sia stata un’effettiva appropriazione o distrazione che manifesti l’elemento soggettivo del dolo (gli ammanchi colposi non integrano il delitto, ma solo l’illecito disciplinare), cioè la volontà, esplicita o anche implicita, di considerare il denaro altrui come proprio. È questo, infatti, il momento consumativo del reato, la cd. “interversione del possesso”.

Sul punto, una serie di pronunce della S.C., che sembravano consolidate, suffragavano una sorta di “semplificazione probatoria”, in base all’assunto per cui se il dovuto versamento delle somme possedute per ragione del suo ufficio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio non avveniva entro il termine normativamente stabilito, o comunque entro un ragionevole ritardo, ciò di per sé comportava una sottrazione di quelle somme e quindi un’inversione del titolo del possesso in senso dominicale (così, tra le altre, Cass. n. 2963 del 2017 in relazione alla riscossione delle tasse automobilistiche, Cass. n. 15853 del 2018 in relazione alla rivendita di valori bollati, Cass. n. 32058 del 2018 quanto all’omesso versamento delle somme riscosse per l’imposta di soggiorno).

Ma poi – essendo innegabile che nella varietà dei casi concreti non sempre e necessariamente la volontà di tenere il denaro come proprio può essere desunta solo dall’inosservanza di un termine – già Cass. n. 5233 del 2019, resa nei confronti del concessionario di una ricevitoria del lotto, non aveva collegato l’inversione del possesso al mero, pur cospicuo ritardo del versamento, bensì all’aver fatto confluire il denaro su un conto corrente intestato al concessionario.

Insomma, è un problema di prova, da valutare secondo gli ordinari criteri indicati dall’art. 192 cod. proc. pen. con un ragionamento complessivo per il quale il mancato versamento di una somma alla prevista scadenza certo non è irrilevante e può ben costituire un indizio del sopravvenuto atteggiamento psicologico uti dominus, ma da solo non basta.

Questo insegnamento (da ultimo confermato da Cass. n. 209 del 2024) e può dirsi ormai stabilizzato; e in questo contesto risulta per noi particolarmente interessante la sentenza della S.C. 2-2-2021, n. 16786, che si occupa specificamente del peculato di un notaio e ci offre quasi un campionario, per quanto non esaustivo, di possibili situazioni probatorie diverse:

il pagamento tardivo (poco più di due mesi e mezzo) di un’imposta da parte del notaio non integra di per sé il peculato in mancanza di altri riscontri di un “utilizzo delle somme per ragioni personali o comunque diverse da quella per la quale le aveva ricevute”;

quanto all’omessa restituzione all’assistito delle maggiori somme fattesi consegnare dal notaio rispetto all’ammontare dell’imposta da versare e da lui autoliquidata, bisogna distinguere le modalità attraverso le quali se le è fatte consegnare: se tramite una condotta consapevolmente mendace e ingannatoria, si tratterà di truffa aggravata; se, invece, il possesso delle maggiori somme è stato acquisito in buona fede ed il notaio – invece di restituirle non appena accertato che non fossero dovute – le ha indebitamente trattenute, nascondendo questo esito al  proprietario, si tratterà di peculato;

la mancata restituzione delle somme ricevute a titolo d’imposta per un’iscrizione ipotecaria non più eseguita – somma anche questa di cui il notaio, secondo legge, acquisisce la disponibilità per ragione del suo ufficio e non per una prestazione d’opera tra privati – integra il peculato se il dolo emerge sulla scorta di una congiunta valutazione della rilevanza dell’importo, della durata dell’inerzia del notaio (nove mesi) e della mancata allegazione di una qualche ragione giustificativa di tale contegno..

Quel che è certo, comunque, è che il peculato è un delitto a consumazione istantanea: una volta integrato il delitto secondo quanto si è detto, il successivo versamento o la restituzione delle somme, anche nei termini dovuti, possono valere solo come attenuante.

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