21 Ottobre 2024

I notai non sono cardinali

Con grande piacere, riapriamo una rubrica a noi molto cara: “Tribuna  aperta”, dedicata alla pubblicazione di articoli provenienti da voci esterne alla redazione. Questa volta, il tema centrale è la Cassa, un argomento che suscita accesi dibattiti. Da un lato, ci sono coloro che ci rassicurano sulla solidità del sistema attuale; dall’altro, ci sono quelli che nutrono forti preoccupazioni, temendo che si stia semplicemente cercando di nascondere i problemi sotto al tappeto, finché questo riesce a coprirli, lasciando a chi verrà  il compito di affrontare la verità.

La questione è complessa e spesso viene affrontata solo nei pressi del pensionamento. Tuttavia, se le opinioni di alcuni esperti sono corrette, è fondamentale che tutti, e forse soprattutto chi ha da poco iniziato la professione e si è sentito dire che è opportuno accedere alla previdenza complementare (a proprie spese), si interessino attivamente a questo tema e stimolino il dibattito.

Invitiamo quindi tutti voi lettori a partecipare attivamente alla discussione inviandoci le vostre riflessioni. Ogni punto di vista contribuirà a una maggiore comprensione della situazione e, auspicabilmente, alla ricerca di soluzioni condivise.

I notai non sono cardinali

a cura di Massimo Malvano, componente dell’Assemblea
dei Rappresentanti della Cassa Nazionale del Notariato – Zona III Lombardia

In Italia il sistema previdenziale più simile al nostro non è quello degli avvocati, dei commercialisti o di altri professionisti, ma è quello dei cardinali.

A tutti i notai, a fine servizio (e a parità di anzianità), viene garantita la stessa indennità di cessazione (fino a circa Euro 300.000,00 lordi) e la medesima pensione (fino a circa Euro 7.000,00 lordi), e ciò a prescindere da quanto il singolo notaio, di fatto, abbia versato con i propri contribuiti durante l’esercizio della professione o abbia fatturato a seguito della propria attività.

E’ questo il sistema cosiddetto “solidaristico” ideato circa 100 anni fa.

Secondo una previsione, per l’anno 2024, le indennità di cessazione da corrispondere ammontano a circa 30 milioni di euro e le pensioni da erogare ammontano a complessivi circa 208 milioni di Euro.

Le indennità di cessazione vengono corrisposte utilizzando i rendimenti immobiliari e mobiliari del patrimonio della Cassa, i quali, secondo la previsione per l’anno 2024, saranno complessivamente di circa 25 milioni di euro (pari, tra l’altro, all’1% circa del valore del patrimonio della Cassa, che è stimato in circa 2 miliardi e 100 milioni di euro). Normalmente, detti rendimenti sono sufficienti per corrispondere agli iscritti le indennità di cessazione e solo sporadicamente, in passato, si è dovuto attingere a riserve.

Le pensioni, invece, vengono erogate utilizzando i contributi repertoriali.

Innanzitutto, è facile immaginare che una eventuale decisione del Governo di ridurre qualche nostra competenza, come tentò di fare il Governo Renzi una decina di anni fa, comporterebbe, come conseguenza, la riduzione dei contributi repertoriali e una inevitabile crisi della Cassa.

Incrociamo le dita e ipotizziamo che le nostre competenze rimarranno inalterate nei prossimi anni.

Si dormiranno sonni tranquilli? Oggi probabilmente sì. E ha ragione il Presidente della Cassa a ribadire che la Cassa attualmente è solida. Probabilmente anche tra dieci anni. Successivamente, potrebbe essere legittima qualche preoccupazione. Mi spiego.

Consideriamo due dati essenziali (tralasciando per un attimo le indennità di cessazione e soffermandoci sulle pensioni):

l’importo del trattamento pensionistico da erogare, ossia quello che la Cassa deve corrispondere agli iscritti;

l’importo dei contributi repertoriali che, come detto, la Cassa “incassa” per pagare il trattamento previdenziale. 

Ebbene, il primo aumenta continuamente, mentre il secondo sta rimanendo abbastanza costante nel tempo.

Un chiaro grafico, fornito dal Consiglio della Cassa, evidenzia che l’importo del trattamento pensionistico aumenta progressivamente dal 2006 a oggi. Ormai siamo a +30% rispetto a dieci anni fa.  Ciò sta a significare che serviranno sempre più entrate per garantire a tutti la stessa pensione. 

Sarebbe auspicabile che, invece, nei prossimi anni l’importo del trattamento previdenziale rimanesse costante. Ma forse così non sarà. Ci sono, infatti, molti elementi che fanno propendere per un progressivo incremento dell’importo del trattamento pensionistico da corrispondere.

In tal senso, depongono:

il costante aumento dei notai che vanno in pensione (e tra poco, tra l’altro, toccherà a quelli dei maxi concorsi degli anni ’80);

l’aumento del numero dei “baby pensionati”, ossia di quelli che vanno in pensione prima del previsto (tra l’altro, per alcuni di essi, la causa è da rinvenire anche nei compensi troppo bassi che vengono chiesti per i rogiti; a conti fatti, per qualche Collega conviene andare in pensione prima del compimento del 75esimo anno di età. Anche questo è un effetto incredibilmente dirompente delle tariffe misere a volte praticate);

l’aumento dell’aspettativa di vita e, quindi, della durata delle pensioni da corrispondere;

l’incremento del numero dei notai degli ultimi anni, in una prospettiva però che esplicherà i suoi effetti dirompenti in un periodo di tempo molto superiore a dieci anni.

Esaminiamo ora il secondo dato, ossia l’importo dei contributi repertoriali, che la Cassa riceve e che serve a sostenere il pagamento delle pensioni.

Questo è il dato che dovrebbe necessariamente crescere progressivamente, per consentire l’equilibro con l’importo del trattamento pensionistico da corrispondere agli iscritti. Anche in questo caso, potrebbe non essere così.

I contributi repertoriali, infatti, non aumentano da circa otto anni, fatta eccezione per l’aumento del 2021 dovuto alla loro diminuzione nell’anno 2020 a causa dell’emergenza sanitaria coronavirus.

Tornando indietro nel tempo, si nota un’importante crescita nel 2012. Si tratta però di una crescita “non naturale”, in quanto non legata a un aumento del numero degli atti (che di fatto è costante da oltre dieci anni), ma a una crescita ottenuta “artificialmente” perché in quell’anno fu aumentata urgentemente (e drammaticamente) l’aliquota dei contributi.

A questo punto, ci si potrebbe chiedere come poter aumentare l’importo dei contributi da versare alla Cassa.

In primo luogo, escludiamo la possibilità che si possa procedere con un nuovo aumento dell’aliquota (come nel 2012); infatti, ciò sarebbe difficile da praticare, come già sostenuto ragionevolmente sia dal Consiglio della Cassa che dal Collegio Sindacale della stessa.

Inoltre, dubito fortemente che nei prossimi anni la politica nazionale possa riconoscerci nuove competenze, consentendoci, in tal modo, il versamento di nuovi contributi.

Forse, l’ingresso di nuovi giovani notai potrebbe aiutare? Purtroppo, la risposta non può che essere negativa, infatti, se i contributi vengono pagati in base agli atti che stipuliamo, nulla cambia se a rogitarli e a pagare i contributi siamo in 5.500 o in 7.500.

Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si potrebbero mettere a repertorio le denunce di successione, ma così facendo sarebbe ancora più comprensibile la scelta degli utenti di rivolgersi ai vari CAF, associazioni o ad altri professionisti e consulenti per la predisposizione delle stesse che avrebbero costi sicuramente più competitivi.

Si parla di coinvolgere anche le vendite all’asta. A questa ipotesi rispondo con dati alla mano. Da circa sei anni coordino l’attività di coloro che predispongono i decreti di trasferimento al termine delle procedure esecutive presso il Tribunale di Monza. I dati in mio possesso dovrebbero essere quindi abbastanza realistici. Parlo, tra l’altro, del Tribunale di Monza, che, numericamente, è tra i Tribunali in Italia più prolifici nell’emettere i decreti di trasferimento e completare l’iter delle procedure esecutive. Ebbene, se mettessimo a Repertorio i decreti di tale Tribunale, non penso che riusciremmo, comunque, a risolvere il problema pensionistico anche di un solo collega.

Se l’obiettivo è quello di preservare l’attuale sistema solidaristico, presumibilmente, si potrebbe arrivare a una riduzione dell’indennità di cessazione, preservando l’entità della pensione.

Del resto, anche il Presidente della Cassa, in una delle ultime adunanze con i Delegati, ha ragionevolmente sostenuto che detta indennità non costituisce un diritto acquisito (o come dicono altri un “diritto quesito”).

D’altronde, molti ricorderanno che nel 2012, oltre che ad aumentare l’aliquota, si decise di toccare, per pochissimo tempo, l’indennità di cessazione (non nell’importo da erogare, ma nella tempistica della sua corresponsione, prevedendone la rateizzazione).

Non so se un diverso sistema, quale quello contributivo (puro o misto), aiuterebbe a risolvere i nostri eventuali futuri problemi.

Sarebbe opportuno e auspicabile un confronto allargato su questo tema, coinvolgendo anche docenti ed esponenti di altre Casse professionali.

E’ difficile immaginare che eventuali e future riforme della nostra Cassa possano essere attuate, d’urgenza, senza aver prima coinvolto l’intera categoria.

Probabilmente, anche solo l’inizio di una discussione su questi argomenti potrebbe portare al verificarsi di un temutissimo effetto “boomerang” per la Cassa stessa, inducendo qualche collega, comprensibilmente preoccupato, ad andare in pensione prima del compimento del settantacinquesimo anno di età, incrementando il numero dei “baby pensionati”.

Ma è un rischio da correre. Non parlarne, forse, metterebbe in difficoltà i tanti colleghi che hanno fatto affidamento sulla longevità (o definitività) dell’attuale sistema previdenziale.

Il Collegio Sindacale della Cassa, durante la Presidenza Mistretta, espresse chiaramente a noi Delegati come sia difficile comprendere il perché non venga adottato, dai notai, un sistema pensionistico simile a quello degli altri professionisti italiani. Forse il Collegio Sindacale aveva ragione.

Del resto, non siamo cardinali.

Massimo Malvano

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